Costi sociali e ambientali della moda usa e getta.
Silvia Pettinicchio membro dell'esecutivo Verdi Europa Verde Milano
Dopo il movimento fast food vs slow food sempre più persone auspicano che anche il fast fashion abbia i giorni contati. In piena crisi sanitaria, dopo un anno in cui il cambiamento climatico si è palesato con prepotenza - le foreste di mezzo mondo sono andate in fiamme, i ghiacciai dalla Groenlandia all’Hymalaia alla Marmolada che si sono liquefatti, abbiamo perso le barriere coralline e gli atolli affondano - Giorgio Armani scrive una lettera a WWD dicendo: “Io non voglio più lavorare così, è immorale.” Ci si interroga quindi sui costi economici e ambientali del fast fashion sia low cost sia high cost che “impone” di aggiornare gli acquisti mettendo fuori moda i capi due o quattro volte l’anno.
L'industria del fast fashion, la moda pensata per un consumo rapido e a basso costo, è tra i settori commerciali di maggior successo da inizio millennio, specialmente dopo che, nel 2005, sono state ridotte le limitazioni sull'import di indumenti.
Mentre la produzione di capi di abbigliamento è quasi raddoppiata, la durata media del ciclo di vita dei prodotti ha conosciuto un declino inversamente proporzionale. Si stima infatti che, nel periodo 2000 – 2015, l’utilizzo medio di vestiti e accessori sia diminuito del 36%, con i capi più economici che vengono indossati solo 7 o 8 volte prima di essere scartati (alcune stime parlano addirittura di 4 volte). L’esplosione del fast fashion, caratterizzata da un’offerta ogni anno più frequente di nuove collezioni di vestiti e accessori, a prezzi ridotti, è sicuramente una delle cause di questo fenomeno.
Un’inchiesta della BBC sottolinea come i britannici si aggiudichino il triste primato di maggiori acquirenti di vestiario: le vetrine sono piene di abiti a meno di dieci sterline e persino di costumi da bagno ad una sterlina sola. Chi si può stupire se gli acquisti siano frenetici? Ma il trend non riguarda certo solo il Regno Unito.
La moda tradizionale offre solitamente due collezioni l'anno, mentre il fast fashion può arrivare a portare sul mercato fino a cinquanta serie diverse nello stesso lasso di tempo. L'impulso all'acquisto viene costantemente alimentato, favorito anche dall'economicità del prodotto offerto ed è in questo modo che il business riesce a tenere il passo con i giganti dell’e-commerce.
Lo shopping è inversamente proporzionale al costo dei vestiti. Ma questa moda usa e getta ha dei rischi sociali resi noti da una delle più grandi tragedie della storia industriale moderna: il crollo del Rana Plaza di Dacca, Bangladesh, il 24 aprile del 2013, costato la vita a 1.200 persone, quasi tutti lavoratori nelle fabbriche che producono gli abiti di marchi tanto amati nel ricco Occidente (per approfondire i costi sociali della moda clicca qui link all’articolo).
Oltre ai costi sociali e all’aumentare del volume di produzione e di consumo, sono note le ripercussioni di questa filiera anche sul quadro ambientale. Si pensi che in media, per produrre un singolo paio di jeans è necessario impiegare 3.800 litri d’acqua, 12 mq di terreno e 18,3 Kw/h di energia elettrica, a fronte di un’emissione di 33,4 kg di CO2 equivalente. Un impatto che assume dimensioni impressionanti se si considera che ogni anno in tutto il mondo vengono prodotti 3 miliardi e mezzo di jeans.
Ma non si parla solo di jeans. Consideriamo infatti la produzione delle materie prime come indicatore. I materiali maggiormente utilizzati sono il poliestere (che domina il settore) e il cotone. Quest'ultimo ha bisogno di un'enorme quantità d'acqua per favorirne la coltivazione, a esser precisi ben 20mila litri per kg.
A ciò si aggiunge l'uso intensivo di pesticidi, letali per lavoratori costantemente a contatto con tali materie tossiche - la regione indiana del Punjab, dove una buona percentuale di cotone viene prodotto, sta lì a dimostrarlo - e l’impoverimento conseguente del suolo.
Anche il poliestere, materiale creato artificialmente, ha il suo impatto, arrivando ogni anno a produrre gas serra pari a quelli rilasciati da 185 centrali elettriche a carbone (oltre 700 miliardi di Kg).
A tingere in modo fosco questa trama si aggiunge una serie di problemi indotti dal confezionamento degli indumenti, specialmente in fase di colorazione. La tintura infatti rilascia un'ingente mole di residui chimico-tossici nelle acque e nei terreni limitrofi agli stabilimenti tanto che sono allo studio sistemi alternativi di tinteggiatura, che però non rappresentano ancora il mainstream della produzione.
Inoltre i capi invenduti dell’alta moda finiscono negli inceneritori. Non in senso lettarario ma in senso letterale. (La rivelazione choc uscita nel luglio del 2018 racconta che, come si apprende dai documenti contabili di Burberry, la storica azienda inglese ha spedito nell’inceneritore capi e accessori per un valore di 31 milioni di euro.). Si aggiunga che l'85% dei vestiti dismessi finisce direttamente nelle discariche/inceneritori, o alimenta filiere torbide del riciclo andando ad incrementare il problema complessivo della gestione dei rifiuti, già molto critica.
Crediamo che il cambiamento in questo settore, perché sia sostenibile sia sul piano sociale ed economico, sia su quello ambientale, debba fondarsi su due asset: la consapevolezza del consumatore, e l’etica del produttore.
Il nostro appello quindi è rivolto, oltre che alle istituzioni governative e imprenditoriali, alla comunità dei consumatori, perché il cambiamento possa davvero attuarsi nel quotidiano.
A sostegno di un consumo orientato alla sostenibilità ci vengono in aiuto iniziative private e nuove tecnologie. Ad esempio, app che permettono di valutare l'impatto ambientale di un prodotto già al momento dell'acquisto attraverso l’utilizzo di etichette digitali RFID (Radio Frequency Identity). Una volta effettuato l'acquisto, il consiglio è sempre quello di utilizzare i capi il più possibile, anche riparandoli qualora fosse possibile, che è quello che abbiamo fatto da sempre, fino a prima degli ultimi 20 anni.
Il cambiamento è possibile. Dipende da noi tutti. Ben vengano quindi ripensamenti e prese di posizione forti come quella di Armani, da cui auspichiamo anche il reinvestimento a vantaggio della collettività dei capitali accumulati. Ci battiamo perché siano sempre di più le case di moda che convertano realmente i propri cicli produttivi e distributivi verso pratiche sostenibili, e lo facciamo coinvolgendo la comunità dei consumatori e migliorandone la consapevolezza, perché il mercato segue sempre le scelte dei consumatori.
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