Una mondo da ripensare: slow fashion nel futuro della moda?
Erica Soana Gev- Verdi Europa Verde Milano
Nelle parole di Giorgio Armani la fast fashion, questo meccanismo a cui la moda si è asservita, viene definita come qualcosa di immorale. Ma davvero cosa c’è di immorale nell’andare per le vie di Milano e concedersi due coccole per sé stessi facendo shopping? Cosa c’è di immorale nel comprare l’ennesima t-shirt a 3€ in super sconto?
L’industria dell’abbigliamento è fortemente cresciuta negli ultimi 15 anni: a livello mondiale il valore complessivo di questa enorme industria è stimato a 2.500 miliardi di dollari e impiega più di 300 milioni di persone[1]. Questa crescita è stata dettata principalmente dal sistema della fast fashion la quale si basa sul lancio compulsivo di nuove collezioni composte da capi di bassa qualità a prezzi stracciati.
Tuttavia con il crescere di questo settore si sono velocemente ampliati anche gli impatti ambientali e sociali connessi. Secondo la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite l’industria tessile è responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e contribuisce alle emissioni di anidride carbonica per il 10%[2]. E ancora, in questa filiera vengono usati pesticidi per le coltivazioni, coloranti tossici e sostanze dannose che vengono ogni giorno scaricate nei fiumi e nei terreni vicini alle fabbriche contribuendo all’inquinamento dell’ambiente e mettendo a grave rischio le popolazioni che vi vivono (per l’approfondimento sui costi ambientali della fast fashion si rimanda all’articolo). Inoltre, la lavorazione tessile è ormai principalmente de-localizzata all’estero, nei paesi più poveri dove le regolamentazioni in materia ambientale e sul lavoro sono ben lontane dalle nostre. In questo settore sono impiegate principalmente donne e minori i quali lavorano anche per 12 ore al giorno con stipendi insignificanti e con misure di sicurezza praticamente assenti. Non per altro la filiera del tessile è considerata la seconda industria maggiormente esposta al rischio di forme di schiavitù moderna[3]. Il crollo del Rana Plaza, un edificio di otto piani che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento occidentali, avvenuto il 24 aprile del 2013 a Dacca, ne è un esempio: nonostante gli evidenti cedimenti strutturali le fabbriche tessili non sono state chiuse e sono morte, in seguito al crollo, 1.129 persone e ne sono rimaste ferite circa 2.515. Certo, da quel giorno alcune cose sono cambiate, ad esempio è stato sottoscritto “l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici”, grazie anche alla collaborazione di Abiti Puliti. Tuttavia, vi sono ancora diversi marchi internazionali, alcuni anche molto noti, che non hanno aderito all’accordo. Senza dimenticare che, in questi Paesi, si è molto lontani dalla garanzia di accettabili sistemi infortunistici e previdenziali nonché da buoni livelli salariali.
La realtà vista da questo punto di vista prende tutta un’altra piega e quella t-shirt da 3€ ora non sembra più un’offerta così accattivante, anzi è proprio immorale. Quindi sì, crediamo nelle parole di Giorgio Armani. Questo sistema malato che produce circa 30 collezioni all’anno deve finire perché è immorale. Dovremmo riscoprire la bellezza nello scegliere cosa realmente ci piace, trovare ispirazione in cosa per ognuno di noi è realmente autentico, lasciare spazio a tessuti più sostenibili e durevoli nel tempo, a ridare valore a ciò che indossiamo per tutto il lavoro e l’amore che c’è dietro a un capo.
Speriamo che le cose cambino e anche in fretta.
[1] https://cambiamoda.manitese.it/library/cambiamoda/la-moda-e-una-cosa-seria/quell-azzurro-rappresenta-milioni-di-dollari [2] https://www.friendlyshop.it/fast-fashion-di-cosa-si-tratta/ [3] https://alleyoop.ilsole24ore.com/2019/06/20/fast-fashion/
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